
Tutte le informazioni necessarie per valutare se si è in grado di affrontare questa avventura e quali difficoltà comporta.
Chi è appassionato di montagna, chi ama i viaggi un po’ più “fisici”, chi vuole mettersi alla prova, o semplicemente chi vuole arricchire il proprio viaggio nella magica Africa, almeno una volta ci avrà pensato. Scalare il Kilimangiaro.
Questo è il racconto della mia esperienza che ho fatto diversi anni fa, ma le difficoltà, i tempi di salità, le caratteristiche del percorso e tutti gli aspetti emozionali, sono in generale poco mutevoli. Di seguito troverete tutte le indicazioni per avere un quadro abbastanza chiaro del tipo di impresa che vi aspetta.
Cominciamo.
Da buoni viaggiatori, ma in questo caso, anche da buoni alpinisti, è innanzitutto opportuno sapere dove si sta andando e cosa si troverà. Ricordatevi che viaggiare significa anche conoscere.
Il Kilimanjaro National Park.
Con il nome Kilimangiaro (o Kilimanjaro) si fa riferimento al Kilimanjaro National Park e non alla montagna (o meglio vulcano spento), come invece spesso si intende. In effetti il nome riguarda tutta l’area ex vulcanica, che comprende non uno, bensì tre vulcani: lo Shira, il Mawenzi e il Kibo, che costituisce la vetta massima.
Per la verità lo Shira è molto più basso degli altri due ed è rimasto soffocato da questi. Lo si conosce più che altro per gli studi geologici effettuati e non rappresenta nulla che sia significativamente visibile. Ben diverso è il discorso per il Mawenzi. Più basso del Kibo di 800 m, ma comunque dalla presenza netta e imponente.

Anzi, come succede spesso per altre cime massime sparse per il pianeta, se si escludono gli aspetti legati all’altitudine, alpinisticamente la sua scalata è più difficoltosa di quella del Kibo. Il tetto del mondo è l’Everest, ma la cima più difficile da scalare è sicuramente il K2. Noi italiani dovremmo esserne orgogliosi, avendolo scalato per primi, ma purtroppo anche in quel caso siamo riusciti a “sporcare” l’impresa. C’è voluto mezzo secolo affinché la “verità” prendesse il posto della versione ufficiale. Chi volesse sapere com’è andata potrà leggere i libri di Walter Bonatti, recentemente scomparso.
Non solo alpinismo.
Torniamo all’argomento. L’area del parco è enorme e bellissima, ricca di flora e fauna, con paesaggi da cartolina, nel senso più letterale del termine. Fra l’altro siamo in Tanzania, al confine con il Kenia, relativamente vicini al famoso parco di Ngorongoro, ma anche ai meno noti, ma sempre spettacolari Tarangire e quello del lago Manyara. Di solito chi parte per scalare il Kilimangiaro non perde l’occasione di visitarli e vi posso assicurare che si tratta di luoghi che non dimenticherete. Se poi amate l’Africa meridionale, come nel mio caso, allora questa esperienza vi rimarrà nel cuore.
Non posso certo dimenticare l’arrivo sul bordo del cratere del bacino di Ngorongoro. Fu come affacciarsi da un balcone su un’area immensa. Notai a malapena alcuni puntolini assolutamente indistinguibili, nella parte che mi era più vicina. Il binocolo mi consentì di vedere che si trattava di un branco di elefanti.
La Marangu road.
Per scalare il Kilimangiaro, le vie di salita alla vetta sono diverse, Alcune rapide, ma difficili, come la Mweka, altre belle, ma con poche strutture, come la Machame. Quella che ho percorso io e che vi racconto è la via più classica e con migliore assistenza: la Marangu road.
Per accedere all’area del parco da questo lato, di solito si fa base ad Arusha o a Moshi, le due città più vicine al parco. In mezzo a queste è presente anche l’aeroporto internazionale del Kilimanjaro, che agevola l’arrivo e la ripartenza. Proprio perché principale punto di accesso al parco, vi fanno tappa diversi voli. Io, terminata la spedizione sul Kibo, ho volato fino a Zanzibar, per qualche giorno di riposo. Non sapevo che nell’isola mi avrebbero rubato lo zaino con il passaporto e soprattutto la telecamera. Nella sfortuna ebbi la grande (che più grande non si può) fortuna che la cassetta (erano ancora i tempi dei nastri) vi era stata appena inserita. Salvai così le riprese fatte lungo tutta la scalata, i cui nastri digitali erano stati riposti nel borsone.
Come vedete di ricordi ne ho parecchi e mi distraggo facilmente.
Da Moshi si entra nell’area del parco, fino alla porta di inizio del percorso di trekking, ovvero il Marangu gate. Le tappe classiche sono le seguenti:
- Marangu gate (1870 m),
- Mandara hut (2700 m),
- Horombo hut (3720 m),
- Kibo hut (4705 m),
- Gillman point (5685 m),
- Uhuru peak (5985 m).
Mandara, Horombo e Kibo, sono i tre rifugi dove si fa tappa per la notte. Il Gillman point è il punto di arrivo sul cratere di sommità. Uhuru peak è la cima massima. Uhuru in lingua Swahili significa “libertà”.
Tappa 1 – da Marangu a Mandara.
Questa è la tappa più facile e che somiglia a tutti gli effetti a una passeggiata nel bosco. Ci si muove in mezzo alla lussureggiante vegetazione equatoriale, con clima da foresta pluviale. Piante di ogni tipo, fiori, animali e torrentelli ovunque. La salita facile e piacevole, in tre ore la si percorre tutta. C’è tutto tempo per foto e riprese, nonché per conoscere i compagni di viaggio.
Le pendenze sono modeste e il sentiero è ben curato. L’unica cosa che può disturbare lo spostamento sono le condizioni meteo. L’abbigliamento necessario è quello da trekking estivo dalle nostre parti. Si sale in maglietta e bermuda, con la sola precauzione di portarsi una protezione per l’eventuale pioggia. Come sempre in questi casi, la cosa più importante sono gli scarponi, che devono essere adatti e ben collaudati.
Ovviamente ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie necessità della giornata, tramite il proprio zaino. Tutto quello che serve per il pernottamento, compresi materassini e sacchi a pelo, nonché i pasti, sarà a cura dell’organizzazione.

Il Mandara hut è il più carino dei tre rifugi utilizzati. Va detto che sono tutti piuttosto spartani, ma il grado di essenzialità aumenta con la salita. Siamo ancora in mezzo alla vegetazione e tutto ha un gradevole aspetto lussureggiante. Si è ancora freschi, non si hanno fastidi per la quota e si ha il tempo per qualche giretto nei dintorni, alla ricerca di scimmie e uccelli.
Tappa 2 – da Mandara a Horombo.
La tappa è ancora facile. Le pendenze sono ancora modeste, ma il sentiero ha dei tratti più scoscesi. Si passa progressivamente dalla vegetazione tropicale ad un paesaggio più brullo, con vegetazione bassa, punteggiata da cespugli di erica e gruppi di seneci. Cominciano i tratti più rocciosi e l’aria si fa più fina. Presto per il vero mal di montagna, ma la rarefazione comicia a farsi sentire.

Riguardo al mal di montagna, si intende una precisa patologia, ben nota agli alpinisti e che può avere effetti anche gravi, compresa la morte. Chi non conosce questo problema, può leggere l’articolo: “Il mal di montagna, una patologia da non sottovalutare“.
Il dislivello da superare è lo stesso del giorno precedente, ma il percorso è più lungo e con qualche difficoltà in più. Il tempo necessario è sicuramente maggiore e si comincia ad arrivare un po’ stanchi. Le caratteristiche del rifugio sono analoghe al precedente, ma questo sembra più grande. Le decine di edifici in legno, con i pannelli solari, le strutture per i servizi comuni, danno la sensazione di trovarsi in un villaggio intensamente abitato. In effetti le persone presenti sono in numero maggiore degli altri rifugi perché da qui si spende la cosiddetta “giornata di acclimatamento“.
Cos’è?
Come è noto quando in montagna si sale oltre certe quote, si deve dare il tempo all’organismo di abituarsi alla situazione di carenza di ossigeno, ovvero appunto di acclimatarsi. Ovviamente tutto dipende da dove ci si trovava prima della salita. Le popolazioni che vivono stabilmente in alta quota hanno sviluppato le contromisure, compreso un maggior numero di globuli rossi.
Gli alpinisti che mirano a vette Himalayane trascorrono molte settimane in quota per abituare il proprio organismo alla carenza di ossigeno. Per questa salita è sufficiente una giornata di acclimatamento. Si segue la classica regola di montagna di salire a “denti di sega“. In pratica si sale per sollecitare il proprio corpo, ma poi si scende un po’ per facilitare il riposo notturno e ridurre lo stress.
Tappa di acclimatamento.
Il giorno successivo si sale dai 3720 m del rifugio, fino ad oltre 4000 m e poi si torna indietro. L’occasione si presta per una bella escursione alle pendici del Mawenzi. Trascurato per la sua minore altezza, ma dalla cima elegante e che minaccia difficoltà alpinistiche, che in effetti ci sono.
Si passa vicini a una bella falesia la cui superficie verticale è stata disegnata dagli agenti atmosferici con delle striature molto belle. Viene infatti chiamata “Zebra rock“.

Si procede oltre facendo un primo assaggio della cosiddetta “Sella dei Venti“, ovvero la grande superficie curva (appunto a sella) che separa il Mawenzi dal Kibo, ma anche la Tanzania dal Kenia. Emozionante l’affacciarsi verso l’altro stato da queste quote. Tutto appare enorme e lontanissimo.
I venti, da qualunque parte arrivino, qui si sentono perché riescono finalmente a superare il massicio montuoso dell’area del Kilimangiaro.
Si rientra all’Horombo a recuperare le energie per la tappa successiva.
Tappa 3 – da Horombo a Kibo (hut).
Si comincia a fare sul serio. Questa volta si raggiungono ancora i 4000 m, ma non per ridiscendere, bensì per andare oltre. Superati i dislivelli iniziali, ci si trova nell’immensa Sella dei Venti. Ancora una volta si aprono gli orizzonti verso le sconfinate savane del Kenia, dove possiamo solo immaginare le grandi mandrie di gnu al pascolo e le loro lotte con i predatori.

Il sentiero sembra quasi in pianura, ma alla fine della giornata si sono comunque superati i mille metri in programma. La bassa pendenza renderebbe la salita assai facile, ma quando si arriva intorno ai 4500 m di quota cominciano a farsi sentire gli effetti del mal di montagna. I disturbi sono molti diversi da soggetto a soggetto, ma in generale cominciano i mal di testa, le nausee e si perde l’appetito.
Di vegetazione ormai non c’è quasi più nulla. Tutto è sempre più estremo. Inevitabilmente la maggiore distanza dal punto di parternza del percorso, la maggiore quota e l’ambiente estremo, hanno spinto gli organizzatori a predisporre solo l’indispensabile in questo rifugio. Niente acqua corrente, niente riscaldamento (il freddo la notte comincia a farsi sentire) e bagni all’aperto. Non proprio un cinque stelle.
Ciascuno si comporta secondo le proprie condizioni e la conoscenza del proprio corpo. Tutti cercano di riposare, ma con scarsi risultati. Come spiego meglio nell’articolo sul mal di montagna, io sono relativamente fortunato. Appartengo a quel 25% di popolazione che sembra non soffrire di questo male. Non soffrirne però non vuol dire che non si “senta” la quota. Vuol solo dire che non si ha particolare sensibilità e facilità a sviluppare i sintomi classici. Ricordo che sentivo uno strano senso di oppressione alla testa e l’unica cosa che riuscii a ingerire fu una zuppa calda.
Tappa 4 – da Kibo (hut), al Gillman point.
Ci siamo è il momento della verità. La tappa più lunga, più impegnativa, più importante e che non ammette appello. O oggi, o mai più, anche se qualcuno ci ha riprovato a distanza di anni. Oltretutto si è meno riposati per colpa della quota, che ci tormenterà sempre di più. Inoltre occorre rifare anche la discesa aggiuntiva fino al precedente rifugio. Insomma la tensione è alta. Ognuno controlla e ricontrolla la propria attrezzatura. Basta sbagliare i guanti e si può perdere tutto.
La partenza.
La partenza è intorno a mezzanotte. Il capo guida decide l’ordine dei partecipanti, disposti in fila indiana. Chiude il gruppo la seconda guida, che controlla che nessuno si perda. Vestiti come l’omino della vecchia pubblicità della Michelin, con le torcie frontali, si procede lungo il ripido versante del cono di sommità del Kibo. Per ridurre la pendenza, anche a causa del suolo costituito da ghiaie nere, dove si scivola facilmente, si procede a zig zag. Il passo è “pole pole“, come dicono in lingua swahili, ovvero piano piano.
Si procede in un buio pesto. Qui le luci della civiltà sono presenti solo nella nostra memoria. Nel mio caso non c’era nemmeno la luna. Il cielo è uno spettacolo, un tappeto di luce, ma troppo lontano per illuminare il suolo dove poggiamo i nostri scarponi. Fummo fortunati. Niente pioggia e temperatura accettabile, solo -10°C.
Le fermate sono frequenti per riprendere fiato, ma sono anche brevi, per non spendere troppo tempo, visto il percorso in programma. Mia moglie si appoggia alle racchette per aumentare il riposo. A fine giornata mi confesserà che riusciva a fare dei veri e propri pisolini. Ricordava solo il richiamo della guida alla ripartenza.
Il freddo.
Citavo i guanti poco sopra. A momenti furono proprio questi a farmi rinunciare. Portai quelli da sci. Di solito non ho problemi sulle piste, anche con queste temperature. Dimenticavo che sulle piste ci si muove e il sangue circola meglio. Qui le mani non si usano. Oltretutto sapevo bene di soffrire molto il freddo alle mani. Arrivai a un punto che non le sentivo più. Per procedere dovetti tenerle sotto le ascelle.
I primi problemi dovuti alla quota.
Mia moglie, che mi ha passato la passione per la montagna, soffre pienamente il mal di montagna. Lo sapeva benissimo e si era organizzata. Già da giorni seguiva la cura farmacologica prevista e chiese di poter procedere lentamente. La decisione fu saggia. Nei gruppi ci sono sempre quelli che ci tengono a mostrarsi più forti e capaci. Così il nostro gruppo si divise in due. Quattro andarono avanti più speditamente, insieme al capogruppo e io e mia moglie procedemmo più lentamente, insieme alla seconda guida, che ci stava dando per spacciati.
La lentezza invece ci diede forza. Prima ancora di arrivare al Gillman point riprendemmo uno dei quattro “più bravi”. Aveva i primi sintomi del mal di montagna e infatti sarà l’unico che non arriverà in vetta. Fra l’altro era l’unico che era già stato sopra i 6000 m, durante una salita in Himalaya.
L’arrivo sul cratere di sommità combiò tutto. Era giusto l’alba. Il sole africano squarciò rapidamente le tenebre, che ci avevano tenuto compagnia e cominciò a fare il suo dovere. Le temperature salirono rapidamente. A queste latitudini il sole sale in fretta nel cielo e gli effetti arrivano subito. Non potrò mai dimenticare i suoi raggi che si alzavano da dietro la cima del Mawenzi, che sembrava una cattedrale gotica, piena di guglie.
Al paesaggio da sogno si unì lo scongelamento delle mie mani. La circolazione riprese e con essa il mio ottimismo. Dal quel momento, proprio dove tutti andavano in crisi uno dopo l’altro, io mi sentii sempre meglio. Mia moglie aveva ottimamente gestito il suo problema con la quota e facendolo aveva spinto anche me a fare la cosa giusta.
Tappa 5 – dal Gillman point all’Uhuru peak.
Da questo punto, alle ripide pendenze e ai ghiaioni friabili del versante, si sosituì un facile sentiero con pendenza poco fastidiosa su rocce dure. Per andare alla sommità infatti occorre percorrere una ampia porzione del bordo del cratere. Il tratto è lungo, ma il dislivello non è molto.
Da un lato si vede il cratere, ormai pieno dei materiali franati dai bordi del cono. Dall’altro il tappeto di nubi, abbondantemente più in basso, che coprono le pianure circostanti. Si vedono da vicino le parti rimaste del ghiaccio che una volta copriva tutta la sommità del vulcano. In alcuni punti il bianco del ghiaccio si confonde con quello delle nubi. Il cielo è rapidamente passato dai colori dell’alba a uno splendido azzurro, come solo in alta quota si può vedere. Lo spettacolo è di quelli che ti restano nel cuore e nella memoria per tutta la vita.

La conta di malandati e dispersi.
Nell’ultimo tratto prima della cima, il nostro compagno, abbandonato dal gruppo dei “bravi”, non ce la faceva più. Era in preda a uno degli effetti classici dell’esposizione all’alta quota: l’edema cerebrale. Non stava più in piedi e faceva fatica a parlare. Tememmo di dover scendere con lui. Per fortuna vedemmo gli altri “campioni” del gruppo e gli passammo l’incombenza, visto che erano già arrivati alla vetta, ormai vicinissima anche per noi. Calcolando che il compagno in difficoltà ci aveva rallentato molto e che non erano molto più avanti di noi (massimo una manciata di minuti), probabilmente il nostro passo era migliore del loro.
In effetti venimmo a sapere che una ragazza, pur esperta alpinista, era stata molto male, in preda a nausea e vomito. Infatti, durante la discesa, dovrà fermarsi più volte per potersi riprendere e proseguire. Per un po’ non si sapeva dove fosse finita. Un’altro era tormentato dal mal di testa. Solo uno, il più giovane, un ragazzotto che sprizzava salute da tutti i pori, pareva in buona forma. Io non sapevo spiegarmi il perché, ma mi sentivo come se non fossi mai stato meglio in vita mia. Probabilmente per l’emozione.
Le statistiche dei successi.
Degli altri escursionisti possiamo dire che ne abbiamo visti molti in grosse difficoltà. Alcuni appoggiati a un compagno e incapaci di stare in piedi. Altri con facce che testimoniavano le loro sofferenze. Ci tornarono in mente le statistiche, lette prima della partenza: “solo un terzo dei partecipanti arriva in vetta“. Va detto che questa è una salita dove ci provano tutti, in prevalenza persone normali e non alpinisti. Molti non fanno nemmeno un’adeguata preparazione. Altri dati danno percentuali invertite, ovvero “solo” un terzo non ce la fa. Non so quale sia il dato giusto, ma io opto per oltre la metà di insuccessi.
Purtroppo ci sono stati anche dei casi mortali. Il problema maggiore è che troppi affrontano l’esperienza senza adeguata preparazione. Sono tanti quelli che addirittura decidono di provarci solo perché gli viene in mente mentre sono da quelle parti per altri motivi.
L’Uhuru peak.
Facciamo l’ultimo strappo e raggiungiamo la cima. Foto di rito sotto il cartello presente che ricorda che siamo nel punto più alto dell’Africa, ma anche su uno dei più grandi vulcani del mondo e sulla montagna più alta che non faccia parte di una catena. Fra l’altro, per chi non lo sapesse, la forma leggermente ellittica della terra, a causa della sua rotazione intorno al proprio asse, fa si che probabilmente ci si trovi nel punto di tutto il pianeta più distante dal centro della terra.

Il sogno di mia moglie si era realizzato. Durante le riprese di rito, non la vedevo più. Si era accovacciata per piangere, per avercela fatta. Sapeva che la sua predisposizione al mal di montagna poteva fermarla, sapeva che il rischio era alto, ma c’era riuscita.
Lo so, sto un po’ enfatizzando questa avventura. Il fatto è che salire a 6000 m può considerarsi poca cosa per un alpinista professionista, ma noi apparteniamo alle persone normali, per le quali la cosa non è così scontata. Diciamo che è sicuramente alla portata di persone in salute, ben allenate e che gestiscano la salita con buonsenso.
Dopo le foto e riprese a 360° e aver ben fissato in memoria il momento e lo spettacolo, non resta che ripartire, la discesa è lunga.
Tappa 6 – dall’Uhuru peak all’Horombo.
La discesa lungo il ripido versante del cono di sommità è quasi divertente se si sta bene. Adesso si può giocare scivolando sui ghiaioni e seguire la traiettoria di massima pendenza. Per chi sta male invece è nausea garantita. Per noi fu un vero spasso.
Arrivati al rifugio Kibo, ci si riunisce e ci si raccontano le sensazioni. Il compagno malandato si è steso per riprendersi un po’, ma il malessere sarà superato rapidamente proprio perché il problema è solo la quota. Se ci si ostina e non si scende sono guai seri, ma se lo si fa, ci si riprende in fretta.
Il percorso è ovviamente lo stesso dell’andata, ma questa volta si scende e quindi si sta sempre meglio. Ovviamente all’arrivo si è stanchi come poche altre volte. Circa 1300 m di salita e 2300 di discesa. In movimento da mezzanotte a metà pomeriggio. Il fisico invoca riposo.
Tappa 7 – dall’Horombo al Marangu gate e poi fino a Arusha.
Tappa lunghissima, ma in discesa e con l’ottimismo di chi ce l’ha fatta. Si ride, si scherza e ci si raccontano le giornate passate e i problemi superati. L’esplosione di un pneumatico durante il trasferimento a Arusha è solo un motivo per scherzare ancora. La cena finalmente senza preoccupazioni e con i polmoni pieni di ossigeno. Si telefona a casa e ciascuno fa i suoi programmi per il resto del viaggio, che per noi prevedeva qualche giorno a Zanzibar, ma già sapete com’è andata.
Non dimenticate il diploma.

Alla fine dell’avventura, non dimenticatevi di ritirare il vostro diploma presso gli uffici del parco. Ovviamente il rilascio avviene dopo pagamento della relativa tariffa. Spesso l’importo è compreso nel prezzo del pacchetto che avete acquistato.
Per averne diritto occorre essere arrivati almeno al Gillman Point, ovvero sul bordo del cratere di sommità. Il vostro diploma riporterà il punto che avrete raggiunto, il Gillman o quello della vetta, Uhuru Peack.
Un piccolo consiglio. Se il diploma è compilato con una normale penna, è probabile che con il tempo tenda a scolorire. Capite come ritrovarsi un attestato con il vostro nome ormai scomparso sia poco carino. Al momento del rilascio chiedete se possono utilizzare un pennarello indelebile e magari portatevelo al seguito. In ogni caso, appena a casa, fate una bella scansione del diploma. Almenno quella non si scolorirà.
Attrezzatura necessaria.
Per scalare il Kilimangiaro serve quello che si utilizza per un’escursione in alta montagna dalle nostre parti. Si va più in alto delle quote alpine, ma siamo a latitudini pressoché nulle e il sole scalda. Occorre vestirsi a cipolla e portarsi dietro i capi adatti alle diverse condizioni meteo. Ricordo che nel proprio zaino va messo tutto quello che ci servirà per la giornata, ma non quello che verrà utilizzato negli altri giorni. Quello va nel nostro borsone, che sarà trasportato dai portatori dell’organizzazione.
Questa la mia attrezzatura:
- scarponi iper collaudati e affidabili (leggete la mia nota più avanti),
- due o tre paia di calzini da montagna.
- pantaloni che tengano l’acqua e imbottiti, oppure con sotto calzamaglia calda (vanno bene i pantaloni da sci),
- pile caldo sulla pelle,
- pile medio con collo alto,
- giacca a vento in Gore-tex, con imbottitura calda e cappuccio impermeabile, oppure un ulteriore pile di buono spessore,
- cappello caldo con copri orecchie,
- cappellino leggero o bandana per i primi giorni più caldi,
- sciarpa,
- occhiali da sole,
- crema solare,
- guanti impermeabili ben imbottiti,
- zaino ben collaudato con coprizaino,
- borraccia,
- torcia frontale,
- torcia classica impermeabile,
- barrette energetiche di emergenza,
- farmaci contro il mal di montagna (anche se apparentemente non ne soffrite),
- racchette (per chi le usa).
In generale si devono portare materiali provati e riprovati, mai roba nuova.
Sono poi indispensabili alcune dotazioni non materiali:
- un adeguato allenamento nei mesi precedenti (io e mia moglie nei mesi precedenti abbiamo scalato 7 cime fra i 3000 e i 4000 m) e dormito alla Capanna Fassa, sulla cima del Piz Boè, nel gruppo del Sella, per abituare l’organismo alla quota;
- una buona raccolta di informazioni su quello che si va ad affrontare (come leggere articoli come questo);
- una bella dose di buon senso, soprattutto nella gestione delle proprie forze.
Domande e risposte.
Ognuno ha le sue domande e cerca le sue risposte. Cercherò di darvi le mie indicazioni per i dubbi più frequenti.
Si tratta di una scalata facile?
Diciamo che alpinisticamente lo è sicuramente. Il percorso è tutto su un facile sentiero, più o meno ripido. L’unico problema è la quota, che ricordo, mette in difficoltà tutti, chi più e chi meno, ma colpisce a prescindere dalla preparazione e dallo stato di salute. Se volete, potete leggere il mio articolo sul mal di montagna.
Occorre allenamento preparatorio?
Sebbene molti riescono nell’impresa senza alcuna adeguata preparazione, trovo che sia da incoscenti non farla. Anzi è meglio dire da stupidi, perché si rischia di sprecare tempo e denaro per evitare una cosa tutto sommato facile. D’altronde quando si parla di persone che hanno compiuto l’impresa senza preparazione, spesso ci si riferisce a giovani in ottima salute e che fanno regolare attività fisica. Alla fine il concetto non è molto diverso.
Quanto tempo serve in totale?
Per scalare il Kilimangiaro, il percorso classico prevede quattro tappe, più un giorno di acclimatamento, prima dello strappo finale. Dipende però dal percorso scelto. A questo tempo occorre sommare il trasferimento a Moshi (o dintorni) e il pernottamento prima e dopo i giorni di scalata vera e propria. Quindi parliamo di circa una settimana.
Dove si dorme?
Dipende dal percorso scelto. Che io sappia l’unico percorso con tutte strutture fisse in legno è la Marangu road. In questo caso sono sicuramente sistemazioni confortevoli. Si dorme in camerata, ma sono ambienti asciutti e con i servizi, seppur di solito in box separati. Al Mandara, che è il migliore, mi capitò di dormire con mia moglie da soli in una piccola capanna, ma non ci contate. In ogni caso serve il proprio sacco a pelo.
Negli altri percorsi di solito si dorme in tende fornite dall’organizzazione. Ovviamente dovete informarvi prima di scegliere.
Dove e come si mangia?
Anche in questo caso non posso parlare con certezza per tutti i campi, ma di solito c’è un edificio mensa dove si mangia tutti insieme. Il cibo è ovviamente semplice e adatto all’escursione. Alla base ci sono le zuppe calde, che vi assicuro apprezzerete molto. Anche per questo ovviamente troverete cibi più essenziali, nei rifugi più in quota e che creano maggiori difficoltà di approvigiamento. Un piatto caldo, che io sappia, è comunque sempre garantito.
A tutti verrà fornita acqua potabile, da portarsi dietro nella propria borraccia. In diversi momenti della giornata vi verranno offerti anche tè e caffè.
Organizzazione del viaggio e della scalata.
La scalata del tetto d’Africa è possibile solo partecipando a un gruppo organizzato e accompagnato da guide locali (non tentate soluzioni alternative). Questo fa lievitare i costi, ma è evidentemente indispensabile. Servono guide che conoscano bene il territorio e il percorso e sappiano cosa fare in caso di emergenza. Servono portatori per tutta l’attrezzatura necessaria. I rifugi non sono alberghi, seppur spartani, dove si può comprare quello che serve. Ogni gruppo deve avere la propria organizzazione e provvedere alle proprie esigenze.
Riguardo all’agenzia a cui appoggiarsi, occorre accertarsi che sia affidabile e si appoggi a guide autorizzate. Per il resto non ci sono i problemi delle scalate a quote himalayane, dove l’abilità e la competenza del personale può aumentare le vostre possibilità di successo. Una buona soluzione a costo ragionevole è quella organizzata dalla GetYourGuide, secondo la Rongai route. Fate attenzione a ciò che è incluso e cosa no (per esempio i voli). Il percorso parte dal Kenia e risale la montagna da nord.
Altra ottima scelta è quella della Civitatis, con prelievo al vostro albergo di Arusha e ingresso nel parco dalla parte occidentale, presso il Londorossi Gate. Percorrerete l’itinerario Lemosho e attraverserete l’altopiano di Shira. Il tour ha una durata di dieci giorni e comprende molte parti di massimo interesse all’interno del parco, come la valle del Barranco e la Karanga Valley, costeggiando l’omonimo fiume.
I costi.
I costi per scalare il Kilimangiaro cambiano molto a seconda dell’agenzia utilizzata e al livello di confort scelto per i servizi e i pernottamenti annessi alla spedizione. In ogni caso si parla di un paio di migliaia di euro a testa, ai quali vanno aggiunti i costi per le altre attività che aggiungerete a questa splendida esperienza. Non potete andare in Tanzania e non fare un giretto almeno a Ngorongoro.
Il periodo dell’anno più adatto.
Siamo all’equatore e non ci sono periodi “vietati”. Diciamo che ci sono mesi un po’ più freddi, come luglio e agosto e mesi caldi, come gennaio e febbraio. Non è il caso però di seguire questa via per la scelta del periodo. Meglio evitare i mesi piovosi, soprattutto da marzo a maggio, ma anche novembre e dicembre, seppur assai meno. I mesi migliori sono quindi quelli da giugno a ottobre. Se vi è possibile, una combinazione ideale è organizzare il viaggio fra metà settembre e metà ottobre. Poca pioggia e temperature più alte, che in montagna sono sempre preferibili.
Da ricordare.
Non fatevi prendere dalla pigrizia e portatevi una buona attrezzatura foto e video. La mia Nikon pesa 1 kg, solo corpo, ma è un’esperienza che non vi ricapiterà. Non rinunciate a portarvi dietro dei bei ricordi. Ovviamente fate il possibile per non farvi limitare dai possibili malesseri e stanchezze, ma in ogni caso concentratevi e fate ottimi scatti.
Ma soprattutto.
I vostri scarponi saranno la cosa più preziosa che avrete. Dovrete accudirli più del portafoglio. A parte il fatto che affrontare una scalata importante con scarponi nuovi è assolutamente da evitare, la Tanzania non è un posto dove cercare un paio di scarponi all’ultimo minuto. Quindi vanno nel bagaglio a mano e non nel borsone da stiva. Questo capita continuamente che vada perso. Lo ritroveranno quasi sicuramente, ma potrebbe arrivare diversi giorni dopo il vostro arrivo e voi potreste non essere più li. Potreste essere distratti dalla bassa probabilità dello smarrimento del bagaglio. NON è VERO. Non mi ricordo quante volte il mio bagaglio non è arrivato con me. Come ho scritto nella pagina relativa ai viaggi aerei, un anno un corriere ci ha portato a casa i due medesimi borsoni (finiti sul volo sbagliato) a distanza di soli cinque mesi. L’autista ricordava bene sia l’indirizzo che i borsoni.
Io decisi di portarmi i miei scarponi classici da montagna. Cuoio pesante e ingombro notevole (porto il 45). Se li avessi messi nel bagaglio a mano non ci sarebbe stato altro. Ma nel borsone da stiva MAI. Così li ho semplicemente indossati durante il viaggio di andata. Allacciatura leggera, me li sono tolti durante il volo e il gioco era fatto. Ero sicuro che sarebbero arrivati con me.
Altro sull’Africa meriodionale.
Per altre importanti informazioni sulla Tanzania, vi consiglio la lettura dell’articolo su questo paese. Se poi anche a voi, come a me, piace molto l’Africa meridionale, potete trovare l’elenco dei miei articoli su questo continente nella pagina dell’Africa.
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